Fuori dal mondo

FUORI DAL MONDO

di MARISA SALABELLE

A Montagna Brulla, da Pratolupo, ci si va per due vie. Si può percorrere a ritroso la strada sterrata che porta alla casa, tornare sulla provinciale e andare avanti per circa quattro, cinque chilometri in salita, infine deviare a sinistra su per la strada vecchia, oppure si può prendere il sentiero che parte da un fianco della casa e che costeggia, per un tratto, il torrente Selvana: è un sentiero faticoso, a dir la verità, un’antica mulattiera che s’arrampica sul crinale e rasenta burroni e precipizi, è ritto da levare il fiato e pieno di sassi, in certi punti se ne perdono addirittura le tracce, tra l’erba che ci è cresciuta, le felci e i rovi. Arrivati su un pianoro si incontra la casa, ora abbandonata, in cui viveva la Volpe, la donna più stramba e lunatica di tutta la montagna. Viveva con un fratello, l’altro s’era sposato; i genitori erano morti da tempo e poi era morto anche il fratello, per cui la Volpe era rimasta sola. Non se l’intendeva con nessuno, da quelle parti: di lei si raccontavano certe storie, di un figlio che avrebbe partorito e che nessuno aveva mai visto, chi diceva che era morto, chi diceva che era stato abbandonato nel bosco appena nato e se l’erano mangiato le bestie, chi diceva invece che era vivo e vegeto, era un mostro, uno gnomo, un lupo mannaro e ora che sua madre non c’era più si nascondeva nel bosco o tra le rovine della sua stessa casa. La casa della Volpe era così isolata che quando c’era la neve, d’inverno, doveva venire l’elicottero della Forestale a portarle da mangiare. E lei, testarda, non aveva mai voluto andarsene di lì: sono diversi anni, ormai, che è morta, e la casa è diroccata, ma la gente non ci passa volentieri da quelle parti perché ha paura di incontrare il mostro, il lupo mannaro.

Nessuno ci si avventura mai per quel sentiero e si capisce, perché se da Pratolupo uno vuole andare a Montagna Brulla prende la macchina e in quattro e quattr’otto ci arriva senza aver bisogno di spezzarsi le gambe su quella mulattiera. Ma una volta le cose erano diverse: una volta, come ognuno sa, le macchine non esistevano e la gente di Pratolupo, come quella di tutti gli altri villaggi e gruppi di case sparsi per la montagna, se ne andava a piedi e con i muli. Una volta, da Montagna Brulla, per arrivare in città ci voleva una giornata intera: una giornata, ci pensate? Ora invece ci va l’autobus, e in piazza c’è la fermata.

Montagna Brulla è uno di quei  paesini che le guide turistiche definiscono “caratteristici”: sta proprio in cima  a uno spuntone roccioso, con tutte le case addossate l’una all’altra che sembrano fare tutt’uno con la montagna. Sono per la maggior parte in pietra, col tetto di lastre d’ardesia; alcune sono alte e strette e vengono chiamate case-torri. Appena entrati nel paese c’è una piazzetta dove una volta la gente si ritrovava la sera: lungo i muri che la circondano da tre lati ci sono infatti dei sedili su cui le donne si sedevano a ricamare. Il quarto lato guarda sulla vallata ed è protetto da una ringhiera alla quale i vecchi amano stare affacciati. Un tempo Montagna Brulla era un paesotto abbastanza importante, un punto di passaggio obbligato per chi doveva passare l’Appennino: oggi la strada finisce qui, ma in passato continuava ed era una delle più frequentate di questa parte della montagna. E quante famiglie ci abitavano! Oltre al paese vero e proprio c’erano anche gruppi di case sparsi qua e là: Case rotte, Case nuove, La Spianata, Burrone. Ora, d’inverno, tra Montagna Brulla e frazioni varie ci stanno sì e no venti persone: tutti vecchi. I giovani sono andati in città, hanno trovato lavoro giù al piano, nelle fabbriche di scarpe. Hanno i figlioli da mandare a scuola, la bottega sotto casa, il supermercato poco più in là. A Montagna Brulla ormai non c’è più nulla, che non si capisce come facciano questi vecchi a sopravvivere tutto l’inverno. Hanno le provviste, le conserve che hanno preparato durante l’estate, tengono una scorta di medicine, per il pane e un po’ di carne si organizzano tra di loro, chi guida la macchina scende un paio di volte la settimana a Badia e compra anche i sigari per Alfiero, le sigarette per la Sidonia, uno o due settimanali da passare in giro. Alcuni si sono lasciati convincere a scendere in città anche loro, almeno nei mesi più freddi, e vivono in casa dei figli, relegati in una stanzetta; ma gli irriducibili sono rimasti. Sono anziane coppie o vecchi soli, bizzarri la maggior parte, lunatici, inselvatichiti da quella vita che fanno, così fuori dal mondo. Non mancano di ripeterglielo i figli, quando vengon su per i Morti: 

“O babbo, che ci stai a fare tutto l’inverno quassù? Perché non vieni da noi, almeno fino a primavera?”

“Lasciami stare”, risponde il babbo agitando una mano come se scacciasse le mosche, “lo so io quel che ho da fare qui. C’è le patate, nel campo. E quelle lastre sul tetto son da sistemare”

“Quali lastre? Non vorrai salire sul tetto, babbo! Non farmi stare in pensiero!”

“Lo so io, lo so io”, risponde il vecchio e si allontana continuando a scacciare le mosche con la mano.

“Zia Isolina” (hanno tutti dei nomi strani quassù: Isolina, Giordana, Aliseo), “vi ho preparato la camera tutta per voi: i bambini la mattina sono a scuola, lo sapete, e nessuno vi disturba. Non vi ostinate, non mi fate stare in pensiero!”

Ma è come parlare al vento. I vecchi e le vecchie scorbutici, con le gambe nodose e la faccia che sembra una carta geografica, non si vogliono muovere. Qui sono nati e qui vogliono morire. Si alzano presto la mattina e accendono la stufa: hanno case minuscole dove in un batter d’occhio l’aria diventa irrespirabile, addosso portano camiciole a maniche lunghe, di lana spessa, che buca, color marroncino, e mutandoni assortiti, tutta roba che nei negozi non si trova più da decenni e non si capisce come facciano loro a rifornirsene. Le donne, naturalmente, i mutandoni non li portano, ed hanno certe calze di flanella marrone scuro, le stesse che si vedono stese a dozzine, nei giorni di bucato, alle loro finestre. Sopra si mettono vecchi pantaloni di fustagno o vecchie gonne di lana e certi maglioni alti un dito, così infeltriti che sembrano di legno, ed hanno degli stivaloni di gomma e dei giacconi d’incerato: camminano rasente i muri, ciascuno intento ai suoi pensieri, e quando s’incrociano si salutano a malapena. Sbaglia però chi pensa che siano completamente degli asociali: gli uomini per esempio si ritrovano volentieri il pomeriggio, a giocare a carte, a casa dell’uno o di quell’altro, e così le donne, che si fanno compagnia coi loro lavori all’uncinetto e chiacchierano dei tempi di una volta. Eh sì, quando erano giovani, allora sì che Montagna Brulla era un bel paese, c’era la gioventù, e quanti bambini a scorrazzare per queste stradine! Il comune aveva addirittura messo su la scuola per tutti quei bambini, e la maestra arrivava il lunedì mattina e ripartiva il sabato a mezzogiorno; tutta la settimana dormiva nella scuola, la maestra, o andava a pensione da qualche famiglia. Non c’era neanche la luce, a quei tempi, e molte case non avevano nemmeno l’acqua.

“La mattina noi ragazzine s’andava ad attingerla alla fontana, e le mamme ci sorvegliavano dall’uscio, che non volevano che ci si fermasse a chiacchierare. Guai a chi perdeva tempo! La povera mamma mi tirava certi pizzicotti…”

“E te la ricordi la Norina, come tornava a casa dondolando quel secchio, quando c’era Giuliano in piazzetta?”

“Povera Norina, chi gliel’avesse detto allora che avrebbe fatto i figli scemi! Forse la civetta con Giuliano non l’avrebbe fatta!”

In paese, erano molte ad aver fatto i figli scemi, o con sei dita ai piedi, o col gozzo, per via dei frequenti matrimoni tra cugini e cugini di cugini, ma ognuna faceva vista di credere che la disgrazia fosse capitata solo alle altre.

“O Mangiapane, ve lo rammentate Mangiapane?”

Certo che se lo rammentavano, Mangiapane, e chi se lo potrebbe dimenticare? Che s’era fidanzato con la Maria di Bertino e questa, lo sapevano tutti, aveva avuto tutti gli uomini del paese: qualche mese prima del matrimonio era rimasta incinta, non si sa di chi, e a lui toccò sposarla con la pancia che sporgeva sotto il vestito da sposa, e il bello è che il figlio non era suo. La sera delle nozze, poi, i giovani del paese erano andati a fargli il baione, a cantargli la serenata, e lui  non aveva fatto discorsi: s’era affacciato alla finestra col fucile a pallini e aveva tirato nel mucchio. To’: o non ne aveva azzoppato uno? Da quella volta nessuno gli aveva più rivolto la parola, né lui l’aveva rivolta a nessuno, e la moglie l’aveva segregata in casa, finché non se n’erano andati in Svizzera, lui con la moglie e il bambino, che non era suo, e a Montagna Brulla non s’erano più fatti rivedere. 

Quanto a questo, ce n’è parecchia di gente che non si parla, tra i superstiti abitanti di Montagna Brulla: nemici di tanti anni fa, ex rivali in amore, amanti pubblicamente smascherati, fratelli che si sono scannati per un pezzo di terra, protagonisti di vicende cinquantennali, che hanno lasciato rughe profonde sui loro volti e fanno ancora brillare antichi fuochi nei loro sguardi. 

D’estate, però, è tutto diverso. Vengono su figli e nipoti: ognuno ha la sua casa e se l’è rimessa a posto, ha rifatto il bagno e la cucina, messo il parquet nelle camere e una bella stufa nell’ingresso, ha verniciato le travi del soffitto e imbiancato le pareti, seminato un po’ di prato sul retro e sistemato delle fioriere di gerani o di ortensie ai lati della porta d’ingresso. Alcuni si sono ristrutturati addirittura la stalla o la legnaia e ne hanno ricavato una casetta tanto carina. Montagna Brulla si riempie di gente giovane che porta jeans e magliette firmate, di ragazzetti con le mani in tasca e gli auricolari, di bambini che fanno una gran confusione. Apre il circolino, col bar e la sala giochi, dove il sabato si può andare a mangiare una pizza; apre la bottega, il comitato  organizza gare di tiro con l’arco e serate culturali, intere frotte di cittadini abbrutiti dal caldo arrivano per godersi un po’ d’aria. Da qualche tempo, poi, a Montagna Brulla ha fatto la sua comparsa una nuova specie di personaggi, gli Elfi, che vivono in vecchi casolari isolati, avendo dato un calcio alla frenetica civiltà urbana, e nei giorni di festa piazzano qui i loro banchetti dove vendono miele, formaggio pecorino e collanine, braccialetti o anellini di alluminio, perline colorate, spago. Si sospetta che vendano anche erba, ed è per questo che sono tanto popolari tra i figli adolescenti dei villeggianti. La domenica sera si balla il liscio con Pepe e la sua banda. 

Gli ospiti estivi vengono chiamati in diversi modi a seconda del luogo in cui si sono trasferiti in tempi più o meno remoti: ci sono i milanesi, i francesi, gli australiani. Questi ultimi si fanno vivi più di rado, data la grande distanza, ma ogni volta che tornano sono grandi feste. Tutte le volte c’è qualche novità. Il figlio di Pietro ha sposato una norvegese che prende il sole in bikini sulla soglia di casa: hanno due bambine bionde come la stoppa, accanite masticatrici di chewing-gum. La nipote della Leonora si è rimorchiata un nero, giocatore di basket, un tipo lungo due metri. Ba’, dicono i vecchi, che della società multietnica non ne sanno niente, e scuotono il capo, proprio come usano fare i vecchi. Scansano per un pelo un gruppo di bambinetti che si buttano a rompicollo per la discesa con quei maledetti monopattini moderni e si appoggiano coi gomiti al parapetto, dal lato della piazza che guarda la vallata. Un gruppetto di ragazzi si affolla intorno ad una macchina parcheggiata, con lo stereo acceso e i finestrini abbassati: ne esce  un frastuono incomprensibile, ma quelli sembrano apprezzarlo, e mica si sognano di abbassare il volume. “Io proprio non lo capisco questo rappe”, commenta uno dei vecchi e, raschiatasi accuratamente la gola, sputa al di là del parapetto. 

Puntuale, ogni sabato mattina, verso mezzogiorno, arriva Mohamed, il marocchino, con la sua station wagon malandata carica di tappeti, tovaglie ricamate, t-shirt e canottiere a gruppi di tre, calzini di spugna a pacchetti di cinque, fazzoletti, mutande, calze da donna, asciugamani e teli da spiaggia e mille altre cose. Le donne accorrono entusiaste come se non avessero mai visto tanto ben di Dio in vita loro, Mohamed vanta la qualità delle sue spugne, la finezza dei suoi ricami, l’incredibile convenienza dei suoi prezzi. Regala un guanto da forno per ogni paio di lenzuola acquistato, una presina per ogni coppia di federe e si spinge fino a scontare un euro a una signora che ne spende cinquantasei. Mohamed è grasso, allegro, riccioluto.

“Mamma”, dice un piccoletto a sua madre che ha comprato due prendisole per sé e un pacco di calzini per suo marito e torna a casa contenta, “se io da grande farò il marocchino, tu le comprerai le mie tovaglie?”

Ai primi di ottobre anche gli ultimi villeggianti se ne vanno. Hanno l’automobile carica, con tutta la famiglia stipata dentro, sporgono il braccio per salutare ancora una volta i vecchi testardi che restano. “Fa’ ciao al nonno”, dicono le mamme  ai piccolini e ne agitano la manina ancora inesperta. Si girano un’ultima volta a guardare dal vetro posteriore, poi spariscono dietro la curva. Tre o quattro vecchi sono rimasti sulla piazzetta. Hanno la testa insaccata tra le spalle, le mani ficcate in tasca. Tirano un sospiro di sollievo: a loro il paese piace di più quando è vuoto. Il vento si porta via le prime foglie e gli ultimi  sacchetti vuoti di patatine. I vecchi se ne tornano ciascuno a casa sua, camminando rasente i muri.

NOTA BIOGRAFICA

Marisa Salabelle è nata a Cagliari il 22 aprile 1955 e vive a Pistoia dal 1965. È laureata in Storia all’Università di Firenze e ha frequentato il triennio di Studi teologici presso il Seminario vescovile di Firenze. Dal 1978 al 2016 ha insegnato nella scuola italiana. Nel 2015 ha pubblicato il suo romanzo d’esordio, L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu (Piemme), con cui ha ottenuto significativi riconoscimenti. Nel giugno 2019 ha pubblicato il suo secondo romanzo, L’ultimo dei Santi, presso l’editore Tarka.

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